Recensione di Anselmo Brutti
Se per Matisse l’arte, o meglio la pittura, doveva essere una comoda poltrona per contemplare la bellezza delle forme e dei colori, cosa che fece saltare Ricasso su da una sedia, speriamo che almeno una cravatta sia giusta, non stia cioè né troppo larga al collo dell’arte attuale, abbinandosi, con i suoi colori forti e netti, alquanto bene alla nostra caleidoscopica realtà.
Andare a cercare quelli che sono i significati del coniugare tanta vivacità all’interno di una delle forme più seriose e virili dell’abbigliamento maschile, sarebbe una pretesa piuttosto ingombrante, vista la quantità di superficie occupata: una striscia, un lembo di materia pittorica.
Quindi al posto della direzione alto-basso, una freccia che indica, il senso della vista dovrebbe invece farsi catturare dall’ipotetica sinestesia con il tattile, invitandoci a toccare, proprio attraverso gli occhi, il rilievo della pasta cromatica. Ci si potrebbe trovare in un astratto paese dalle meraviglie mobili e vibranti, nella fantasia dei suoi rilievi, che si alzano dal piano per gestire la causale geografia del gusto, suscettibile solo ai mutamenti degli equilibri compostivi.
E’ chiaro che guardiamo la cravatta come se fosse un quadro, l’artificio dell’opera è il modo dell’arte che simula quello dell’arte applicata, ma che cosa succederebbe se guardassimo il quadro convinti che fosse veramente una cravatta?
Saremmo tentati di indossarla o continueremmo a contemplarla tenendola appesa ad un muro?
Una risposta potrebbe essere data dal fatto che la cravatta di Patrizio Moscardelli, da buona opera d’arte, è abbigliamento di se stessa e si fa pelle colorata, come nei rituali di quei popoli che sono ancora incontaminati, dove arte, moda e vita convivono veramente senza divisioni.
Il corpo pittorico si adatta al corpo naturale, La cravatta è semplicemente un pretesto all’impulso dell’atto creativo.
Anselmo Brutti
Grottammare 30.04.2006